Grotte nel Salento

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Il Salento è una penisola ricca di numerose e suggestive grotte sparse qua e la, visitabili principalmente via mare. Tutte meritano di essere visitate per i colori o per la particolare conformazione delle rocce, creando un bellissimo viaggio all’interno di esse, ricco di storia e natura. Anche per chi fosse appassionato di gite, escursioni e immersioni, qui, possono godere di bellissimi scorci di roccia ricchi di nicchie e falesie.

Grotta della Poesia
Grotta della Poesia ©totajla via Canva

Dove si trovano le più belle grotte del Salento?

  • A partire da Porto Badisco a pochi chilometri da Otranto, troviamo La Grotta dei Cervi, cavità naturale e antico luogo di culto. In realtà si parla di una serie di grotte collegate, ricche di pittogrammi del Neolitico raffiguranti cacciatori e prede.
  • Giuntiamo a Santa Cesarea Terme, località famosa per le acque sulfuree delle grotte che mischiandosi con quelle del mare hanno dato vita a grotte con importanti proprietà terapeutiche.
  • Lasciata Santa Cesarea si giunge a Castro, dove troviamo rocce a picco sul mare in cui poter fare il bagno proprio nei pressi della grotta più conosciuta del Salento. La Grotta della Zinzulusa, chiamata così per la presenza di formazioni carsiche e stalattiti (“zinzuli“, in dialetto) che creano un ambiente particolare. Una grande apertura si apre nel bel mezzo della roccia, pronta ad accogliere i numerosi visitatori; si estende nel sottosuolo per 160 mt e accoglie anche numerosi reperti preistorici.
  • Poco più avanti troviamo Grotta Romanelli, ricca di reperti preistorici, conserva tracce risalenti all’uomo di Neanderthal insieme a molti graffiti.
  • Scendendo più a Sud nella zona di Leuca, troviamo Grotta Porcinara, alta 15mt e profonda 30, in cui si può accedere via terra. Questa cavità scavata per metà dall’uomo è anche un luogo di culto. Ricca di iscrizioni latine e greche, vi sono stati trovati reperti dell’Età del Bronzo.
  • Poco distante la Grotta del Diavolo per i rumori dovuti al rifrangersi del moto ondoso al suo interno.
  • Grotta Tre Porte fu chiamata cosi per le 3 grandi aperture sul mare. In questa si trova l’Antro del Bambino, un cunicolo, in cui fu trovato un frammento osseo risalente all’uomo di Neanderthal, appartenente appunto ad un bambino.
  • A pochi metri da quest’ ultima si apre la Grotta dei Giganti. Questa grotta ha riportato alla luce una sepoltura del X secolo e frammenti della cultura musteriana.
  • Troviamo poi disseminate qua e là, tantissime altre grotte come la Grotta del Presepe, la Grotta del Drago, la Grotta Cipollina, ed infine la Grotta degli Innamorati, la Grotta della Stalla e la Grotta del Fiume.
  • Dall’altra parte, affacciata sul mare Adriatico, in località Roca Vecchia, un importante testimonianza storica è data dalla Grotta della Poesia. Si narra che qui facesse il bagno una bellissima principessa la quale era d’ispirazione a tantissimi poeti che le hanno dedicato versi e poesie. Le pareti della grotta sono rimaste intatte negli anni, come anche le iscrizioni storiche al suo interno che insieme al limpidissimo mare che la circonda rendono questo posto unico.
  • Altra grotta nei pressi di San Foca, è la Grotta degli Amanti chiamata cosi perché un tempo vi trovarono rifugio due innamorati.

Oltre al mare cristallino, al paesaggio intatto, agli scorci caratteristici dei paesi costieri e alla deliziosa cucina, il Salento vanta una produzione artigianale che racchiude il sapere dei “maestri” di una volta, di coloro che facevano della propria arte una ragione di vita. L’artigianato è un fenomeno globale, materia di studio, fatto economico, culturale e sociale; è capace di ripercorrere i gesti dell’arte popolare, ma è anche in grado di riproporre opere appartenenti a periodi storici di alto valore artistico. L’artigianato salentino ha saputo mantenere vive le proprie tradizioni nonostante l’avvento della modernità, riuscendo a conservare i suoi tratti fondamentali e mescolarsi all’innovazione.

Nel Sud contemporaneo c’è la voglia di riscoprire il mondo antico, i mestieri dei nostri avi e le vecchie produzioni fatte e vendute in una piccola bottega nella piazza del paese, frutto della fervida immaginazione e delle mani d’oro di qualche maestro che, assistito dal suo “discepolo”, crea una forma d’arte fuori dagli stereotipi, regalando prodotti di alta qualità, di inestimabile bellezza e valore, specchio dell’arte popolare.

artigianato salentino
Lavorazione cartapesta a Lecce

Cartapesta: simbolo dell’artigianato salentino

Simbolo dell’artigianato salentino, in particolare a Lecce, è la cartapesta, nata come impegno religioso in un ambiente in bilico tra sacro e profano. Le prime tracce di tale attività risalgono al Seicento, ma si dovrà aspettare l’Ottocento per vedere la piena fioritura di quest’arte nata nei retrobottega di qualche barbiere leccese, di quella gente più modesta, che si ingegnava a modellare paglia e stracci rivestendoli di carta, realizzando così le famose statue e figure sacre che ritroviamo in tante chiese del Salento. Nonostante tutto, i “poveri maestri” avevano trovato tantissimi committenti, in particolare tra:

  • il clero, che durante l’eresia luterana aveva bisogno di riavvicinare i fedeli attraverso la proposta di Madonne, Santi e Cristi capaci di lambire le anime dei devoti
  • la nobiltà, che attraverso queste commissioni aveva assicurato il proprio posto in Paradiso.

I secoli sono passati, ma le tecniche sono rimaste immutate. I lavori conservano ancora le forme classiche delle statuette sacre ma ancor più frequente è la rappresentazione di figure presepiali di varia dimensione come, ad esempio, quelle esposte in occasione della famosa fiera di Santa Lucia, a Lecce. La città barocca rappresenta il centro salentino con la più alta percentuale di maestri carta pestai.

Terracotta

Altra produzione tipica dell’artigianato salentino è la lavorazione della terracotta, tipica di quei paesi situati nelle zone dove si estrae l’argilla. I popoli che contribuirono alla diffusione di questa tradizione furono i Dauni e i Messapi. La lavorazione della terracotta era diffusa un po’ in tutto il Salento: piatti, scodelle, pignate, vasi si producevano da Nardò a Gallipoli, da Cutrofiano (nel 1985, è stato inaugurato il “Museo comunale della Ceramica”) fino a Lucugnano di Tricase nel Basso Salento, questi ultimi tuttora importanti centri di produzione. Famosa era San Pietro in Lama per la produzione de l'”imbreci” (tegole).

La lavorazione non si limita alla produzione di oggetti per la casa, ma anche di giochini ironici come fischietti, campanelle o gli stessi pupi che continuano ad animare i nostri presepi. Il processo seguiva un impasto di acqua e creta che veniva lavorato al tornio, poi esposto al sole ed infine infornato a circa 900° C: ne vengono fuori manufatti giallognoli o rosso mattone, a causa della presenza dell’ossido di ferro.

Una volta “sfornati”, i capolavori dei “cutimari” (sono detti così gli artisti della terracotta) prendono varie forme tra cui i prodotti citati prima.

Pietra Leccese

Barocco leccese
Pietra leccese ©ilbusca via Canva

In questa lista non può mancare la pietra leccese, una roccia calcarea giallognola che conserva al suo interno fossili marini e terrestri. E’ rinomata per la sua plasmabilità dettata dalla presenza di argilla, motivo per cui si presenta facilmente modellabile, morbida al taglio dello scalpello.

Proprio questo materiale apprezzata in campo artistico, ha raggiunto stima internazionale grazie all’artigianato locale che è alla base del Barocco leccese. Questa pietra pregiata, infatti, cosparge le facciate dei principali monumenti del capoluogo: il palazzo dei Celestini e l’adiacente Chiesa di Santa Croce, la Chiesa di Santa Chiara e il Duomo ne sono alcuni esempi.

La forte presenza sul territorio di cave dalle quali si estrae la materia prima, chiarisce la scelta di utilizzare tale pietra. A tal proposito, A Cursi, uno dei principali comuni in cui si estrae la pietra leccese, dal 2000 è stato inaugurato l’Ecomuseo. Per chi volesse cimentarsi in quest’arte o anche solamente vedere con i propri occhi cosa c’è a monte di tanto splendore, l’Associazione Agrintour organizza itinerari turistico-didattici: da settembre a novembre e da marzo a maggio, l’appuntamento è con i laboratori incentrati proprio sull’artigianato salentino ed in particolare sulla lavorazione della pietra leccese al fine di presentare i territori e avvicinare i giovani ad un mondo spesso dimenticato che potrebbe regalare interessanti soddisfazioni nell’avvio di attività future.

Altre produzioni tipiche dell’artigianato salentino

  • Tra gli antichi mestieri, nel Salento, ritroviamo la produzione di tessuti e ricami, nonché di merletti e pizzi di ottima fattura. Questa, più che un mestiere, è un’arte tramandata da madre a figlia poiché anticamente queste creazioni erano concepite per il solo uso casalingo, in quanto destinate alla preparazione del corredo delle “figlie da maritare”.
  • Nella zona del Capo di Leuca e precisamente ad Acquarica, zone palustri e canneti forniscono la materia prima per la lavorazione del giunco o dei vimini che, pochi vecchi artigiani, intrecciano ancora per produrre panieri, cesti e sporte (borse).
  • Anticamente, il rame veniva lavorato per realizzare quatare e quatarotti (pentole e calderoni in rame che si usavano in cucina), bracieri e scarfalietti (antichi contenitori con un lungo manico nel quale si metteva la brace che permetteva di scaldare i letti d’inverno) che non potevano mancare in ogni casa. Oggi, sicuramente sostituiti dalle moderne pentole in acciaio e da più evoluti metodi di riscaldamento, li ritroviamo riprodotti al solo scopo decorativo in qualche bottega del Capo di Leuca.
  • L’arte del ferro battuto invece è conosciuta a livello nazionale fin dai secoli XVI e XVII per tutti i decori dei portali dei palazzi e delle chiese del Salento. Ancora oggi gli strumenti di lavoro sono gli stessi: l’incudine, la forgia che rende il ferro morbido e malleabile, martelli di diverse forme che infliggono al ferro particolari scalfiture riuscendo a modellarlo nelle linee più varie. Nascono così attraverso l’assemblaggio di più pezzi, testate di letti, lampade, alari, ringhiere, poi dipinte in nero ferrigno, che pochi oggi eseguono ancora attraverso la chiodatura (sostituita dalla più semplice e sbrigativa saldatura).

In moltissimi avranno notato, soprattutto nelle campagne pugliesi o presso gli aeroporti dismessi, delle griglie metalliche traforate e si saranno chiesti che cosa siano o da dove siano arrivate. Non sono altro che dei reperti risalenti al periodo della Seconda Guerra Mondiale, oggi riutilizzati per realizzare cancellate e recinzioni di proprietà private, contadine il più delle volte: il loro nome è Grelle.

Storia e usi delle Grelle

Ancora oggi è possibile vedere delle Grelle utilizzate come inferriate, recinzioni e cancellate, soprattutto presso Masserie o vecchie abitazioni. Se ne possono rinvenire traccia anche presso piste di atterraggio di aeroporti militari in disuso (come a San Pancrazio Salentino, Leverano, Galatina o Manduria). Qualche volta vengono ancora utilizzate per allestire delle piste di volo di emergenza oppure trascinate con il trattore dai coltivatori per spianare terreni appena arati.

Infatti, questo è il motivo per cui sono arrivate in Puglia durante la Seconda Guerra Mondiale. Dagli aviatori venivano infatti utilizzate per allestire in poco tempo delle piste di atterraggio o rullaggio per i velivoli. In una sola settimana, all’epoca, si riusciva ad allestire una pista di mille metri.

Marston mats” era l’altro nome con cui le Grelle erano conosciute in America, in onore della città del North Carolina, vicina all’aeroporto di Camp Mackall. E’ proprio qui che le grate vennero prodotte e sperimentate nel 1941. Essendo realizzate in un metallo molto resistente e per via dei fori, permettevano di attecchire perfettamente al terreno, anche se la pista era bagnata. Questo ne permise l’utilizzo anche per attraversare zone impervie sul quale i mezzi bellici sarebbero affondati oppure per allestire piccoli ponti temporanei.

Subito dopo la guerra, però, gli americani abbandonarono questo materiale “ingombrante” e ciò rappresentò una vera fortuna per i contadini pugliesi che, uscita dal conflitto mondiale, doveva in qualche modo ripartire. Molte di queste Grelle furono vendute alle fonderie mentre altre, lavorate dai fabbri, vennero trasformate in inferriate, recinzioni e cancellate. Da quel momento resistono ancora in molte campagne pugliesi.

Quando da adesso in poi vi capiterà di vedere queste curiose griglie metalliche perforate, saprete che non sono altro che le Grelle, le “Pierced Steel Planking(PSP), elaborate dall’ingegno americano e dagli Stati Uniti giunte fino in Puglia.

Durante le vostre passeggiate per i centri storici del Salento, vi potreste imbattere in delle abitazioni dalla forma architettonica particolare. Il fenomeno delle case a corte, nato nel 1500 in Salento, favoriva, in tempi passati, la coesione sociale delle famiglie grazie alle sue caratteristiche strutturali.

La casa a corte è frequente in tutta l’area del Mediterraneo anche per comuni ragioni legate al clima: si potevano facilmente spostare all’aperto parte di lavori che altrimenti dovevano svolgersi al chiuso.

Case a Corte nel Salento
Case a Corte nel Salento ©www.irenemarchese.it

Come erano strutturate le case a corte nel Salento

  • Dal punto di vista architettonico queste abitazioni sono composte da un cortile concepito come spazio plurifunzionale esterno all’abitazione, come luogo di lavoro, deposito e magazzino, ricovero per gli animali da lavoro, spazio di socializzazione, d’intrattenimento e di gioco al quale si accede da un portale che dà sulla strada.
  • Nel cortile, poi, si affacciano tutti gli ingressi delle singole stanze di cui si compone il fabbricato. Difficilmente le stanze sono collegate tra loro dall’interno.
  • Col passare del tempo, nel cortile venne edificata un’altra stanza: la casa del primogenito. Si giunse in questo modo alle corti plurifamiliari.
  • Con il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, che da braccianti passarono ad essere piccoli proprietari, la casa a corte elementare si arricchisce di un vano carraio coperto, di collegamento tra la strada e la casa, detto samportu o sampuertu. In questo vano venivano ricoverati il cavallo ed il traino, veniva depositata la paglia e gli attrezzi da lavoro.
  • Una prima importante modifica alle case a corte sono i cosiddetti scuri, ovvero i battenti, da qui comincia a perdere di importanza il momento socializzante e comincia la necessità della privacy. Processo che porterà al distaccamento della famiglia dei figli da quella dei genitori, passando così dalla famiglia allargata alla piccola famiglia, ovvero quella odierna.
  • Sul cortile si affacciano anche la stalla, la stanza dove è situato il pozzo e la “pila” per il bucato (una vasca generalmente scavata in un blocco di pietra). Sul retro delle abitazioni, in alcuni casi, c’è anche un piccolo giardino, non lastricato a differenza del cortile.
Case a Corte nel Salento
Case a Corte nel Salento ©www.irenemarchese.it

L’importanza sociale delle case a corte

Le “case a corte” erano di proprietà dei grandi latifondisti, che le facevano usare ai propri braccianti come abitazioni. A vivere in queste case era solitamente un unico nucleo familiare, ma spesso alcune stanze erano concesse ai figli sposati che, in questo modo, continuavano ad abitare insieme alla famiglia di origine. Le camere erano abbastanza grandi, ma arredate in modo spartano.

Questo tipo di abitazione favoriva la socializzazione ed aveva una grande funzione di coesione sociale. La disposizione e la struttura architettonica della casa erano dunque importante per il processo della socializzazione, la cellula abitativa era tale da favorire la convivenza della famiglia, in questo modo il padre e/o i nonni, in continuo contatto con i figli e i nipoti, passavano il tempo libero parlando e raccontando favole, i cosiddetti cunti e culacchi che tenevano uniti e permettevano di tramandare le tradizioni e gli aspetti della cultura popolare dell’epoca.

Negli ultimi anni si è assistito ad un recupero delle “case a corte” da parte delle famiglie proprietarie, che spesso le usano come abitazioni private o come strutture ricettive, in particolare B&B– ristrutturate con gusto e seguendo gli stili dell’architettura salentina. Molti esempi di “case a corte” si trovano nei paesi della Grecia salentina, in Salento.

Attualmente i comuni che la compongono sono 11, tutti in provincia di Lecce: Calimera, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia, Zollino.

I capasoni pugliesi, dal termine dialettale “capase” (cioè capace), sono dei recipienti di creta di colore giallo ocra o giallo bruno di capacità variabile (da pochi litri fino a 300) utilizzati anticamente come contenitori di vino, olio extra vergine d’oliva e acqua, per via della loro capacità di mantenere costante la temperatura al loro interno senza che il contenuto si alterasse.

Capasoni Pugliesi
Capasoni Pugliesi ©cadicocinovo via Canva

I capasoni pugliesi: da contenitori ad oggetti di arredo

  • In passato, quando non esistevano ancora le cantine sociali, i capasoni sostituivano le botti e venivano utilizzati per contenere il vino prodotto dopo la vendemmia ma anche cibi solidi come fichi secchi, funghi sott’aceto e olive in salamoia.
  • Il capasone veniva sigillato con un piatto di creta fissato con una mistura di calce e cenere (solo in questo modo si evitavano infiltrazioni dall’esterno).
  • Nel basso veniva invece fissato un piccolo rubinetto chiamato “cannedda” o un turacciolo chiamato “pipolo”. Dopo l’utilizzo, il capasone, per poter esser impiegato di nuovo, veniva lavato con acqua e tufo macinato con l’ausilio di una spazzola. Sopra quest’ultima erano fissati dei ciuffi di mirto, timo ed altre essenze profumate.

Per anni i capasoni sono stati impiegati anche durante il commercio di vino e olio nel Mediterraneo.

Dai primi anni 2000, queste tradizionali giare sono diventate anche un bellissimo oggetto di design molto richiesto per ornare ville e giardini. Non mancano testimonianze di capasoni anche in resort lussuosi, persino in America. In effetti, questo oggetto riesce ad abbinarsi perfettamente in un giardino come vaso di fiori oppure in un salotto per donare all’ambiente un’atmosfera d’altri tempi.

I capasoni si distinguono da altri contenitori come le giare siciliane che hanno una forma più tozza e più capace, dall’orcio ligure che ha un colore giallo più chiaro, dagli orci toscani che hanno colore più rossiccio e da quelli umbri che sono più chiari e affusolati.

Difficile spiegare l’amore travolgente per questo luogo così straordinario, terra fatta di paesaggi, colori e misteri: il Salento che ha radici molto antiche, addirittura preistoriche. Partiamo precisamente dal IV millennio a.C. con la nascita dei Dolmen nel territorio del Salento.

Quest’ ultimi, così come i Menhir, risultano essere i più antichi monumenti esistenti sulla terra, probabilmente risalenti al Neolitico.

In alcuni l’entrata possiede una porta tagliata in più lastre verticali, per impedire l’accesso ad animali selvatici. Sulla funzione dei Dolmen esistono diverse ipotesi. La più accreditata è che si trattano di monumenti funerari, ma secondo altre teorie svolgevano la funzione di altari e luoghi di culto.

Dolmen
Dolmen ©diegofiore via Canva

Dove si trovano i Dolmen in Salento?

La maggior parte dei Dolmen ritrovati è in Europa Occidentale; nello specifico in Puglia se ne contano 23.

  • Questi si concentrano nel territorio di Bisceglie, Corato, Giovinazzo, Trani, Ruvo di Puglia, Terlizzi e Molfetta, nel brindisino (Cisternino e Montalbano) e nel tarantino.
  • A Minervino di Lecce c’è il dolmen “Li Scusi”, il primo rinvenuto in Puglia (nel 1879), è uno dei più particolari e rappresentativi del Salento e si riconosce nella classifica regionale per le dimensioni. Il nome alluderebbe a un’ipotetica funzione di nascondiglio. Qui è stato allestito il “Parco culturale del dolmen Li Scusi”: un progetto di valorizzazione del territorio che si concretizza in un percorso naturalistico tra muretti a secco, ulivi secolari e sentieri di campagna.
  • Giurdignano, definito il “giardino megalitico d’Italia“, è un paesino noto a livello nazionale per il più alto numero di monumenti in pietra. Esso custodisce ben 7 dolmen integri: dal cosiddetto “Orfine” (alto circa 1 metro) al “Peschio” (scoperto nel 1910); dal “Chiancuse” (di cui è visibile solo la lastra di copertura) ai “Grassi” (due dolmen “gemelli”, unici in Italia); dal “Gravasce” allo “Stabile” (si pensa, per quest’ultimo, ad un altare). La Pro loco di Giurdignano allestisce esclusivi percorsi a piedi, anche di notte, in bicicletta o in carrozza.
  • Anche nella città di Melendugno sono stati rinvenuti 2 dolmen: il “Placa” (formato da 7 blocchi che sorreggono una copertura irregolare) e il “Gurgulante”.
  • Infine Salve troverete il dolmen “Cosi, scoperto nel 1968 da Giovanni e Paolo Cosi, al cui interno sono stati rinvenuti resti umani, cocci di terracotta ed un frammento di ossidiana. A circa 600 metri, risiede il dolmen Argentina Graziadei, che può vantare uno stato di conservazione migliore rispetto al “Cosi”.

In virtù di questa analisi, l’ipotesi di una piccola “Stonehenge” salentina ormai perduta per sempre diventa molto più reale. Una risorsa storica e culturale che potrebbe essere occasione di sviluppo e visibilità culturale. Alla luce di ciò vale assolutamente la pena godersi il suggestivo percorso tra le “pietre” della preistoria.

Le Pajare dette anche “caseddhi“, ma pure “pagghiari” o “furni” sono delle particolari costruzioni tipiche presenti in Salento e sono considerate abitazioni tipicamente rurali e realizzate con la tecnica del muro a secco. Inoltre rispettano i canoni della bioedilizia perché l’utilizzo di materiale naturale come la pietra non incide sull’ambiente diventando un vero e proprio prodigio d’ingegneria.

Pajare
Pajare ©www.19summerclub.it

Origini delle Pajare

Dalla storia piuttosto incerta e controversa, le pajare salentine hanno un’origine decisamente antica, collocabile presumibilmente intorno all’anno 1000 dopo Cristo, anche se qualche storico, arriva a datarle tra il 2000 a.C. e la fine dell’Età del Bronzo. Qualunque ne sia l’origine, però, le pajare salentine s’identificano pienamente con il paesaggio circostante, aggiungendo un pizzico di folklore a un territorio, già di per sé, affascinante e suggestivo.

Utilizzate dai contadini salentini come luogo di riposo dopo un’intensa giornata di lavoro o per sfuggire a un improvviso temporale, le pajare, spesso, fungevano da vere e proprie abitazioni estive, ideali per controllare da vicino, sia il bestiame sia le coltivazioni più delicate. All’apparenza, molto simili ai trulli, corredati da finestre e possono essere anche piuttosto lussuosi e di grandi dimensioni, le pajare si contraddistinguono per un ambiente piccolo e spartano, privo di finestre e senza troppi fronzoli e orpelli.

Realizzazione delle Pajare in Salento

Queste tipiche costruzioni a forma di tronco di cono, sono un vero e proprio gioiello architettonico, realizzate mediante la sovrapposizione a incastro di pietre di diverse dimensioni, reperite in loco e accostate con un lavoro minuzioso di composizione, senza l’uso del cemento.

Pajare
Pajare ©fotografiche via Canva

Infatti la tecnica architettonica mediante la quale i trulli salentini sono costruiti, è la derivazione del sistema del triangolo di scarico, così come la cupola e le volte a botte sono derivate dall’arco a tutto sesto.

Come attrezzo si usava solo un martello di forma particolare, avente una duplice funzione: da un lato esso serviva per assestare le pietre e dall’altro a smussarle leggermente.

Scelto il sito, il contadino o il costruttore esperto, disegnava la planimetria del riparo direttamente sul terreno.

Tra il muro interno e quello esterno si lasciava un’intercapedine (“muraja”), la cui ampiezza varia a seconda della grandezza del riparo (generalmente di un paio di metri); questa viene colmata con pietrame più piccolo frammisto a terra. Le pietre di un medesimo strato, che si contrastano lateralmente costituendo un sistema anulare pressoché rigido, pur senza armatura e senza malta, si reggevano tra loro esclusivamente attraverso i contrasti e per la forza di gravità. I successivi e sovrastanti anelli sono leggermente aggettanti verso l’interno grazie all’utilizzo di pietre più lunghe. Alla fine veniva posta una grande lastra (“chiànca”), in funzione di chiave dell’intera struttura ed a copertura dell’apertura.

All’esterno hanno una scala, eretta sempre con la tecnica della costruzione a secco, che collegava la porta con il fragile tetto. Quest’ultimo, detto falsa cupola, rivela la straordinaria abilità degli antichi costruttori: le pietre che compongono il tetto, infatti, sono tenute insieme dal contrasto laterale tra esse e dalla forza di gravità.

Uso moderno delle Pajare in Salento

Inoltre, le pajare hanno la capacità di mantenere l’ambiente fresco e asciutto, anche durante le ore più calde e in presenza di temperature torride e intense. Unico nel suo genere è lu pagghiarune, sito a Tuglie, di forma troncoconica, costituito da tre gradoni e possiede sulla parte superiore una colombaia.

È molto in voga nel Salento convertire queste costruzioni rurali in strutture per il pernottamento o per il ristoro, regalando ai turisti l’esperienza di poter trascorrere momenti di relax, immersi nel verde e nella tradizione.

Testimoni silenziosi delle prime espressioni del sentimento umano, di un passato che ancora non conosceva la civiltà messapica, sono i Menhir disseminate in Salento, la cui origine e funzione restano avvolte da un’aura di mistero.

Eretti a partire dal Neolitico, il Menhir è un tipo di monumento megalitico costituito da una colonna monolitica, di forma quasi geometrica o irregolare per lo più lasciata grezza, infissa verticalmente nel terreno, detta anche Pietrafitta, alti non più di 5 metri.

Menhir Polisano
Menhir Polisano ©studiodesalve via Canva

La funzione dei Menhir nel Salento

  • Di leggende è illuminato questo cammino megalitico, in quanto sulla loro funzione ancora non esiste una spiegazione certa e del tutto plausibile. Si pensa fungessero da “segnalazioni” di tombe di straordinaria importanza.
  • In molti non escludono il significato di veri e propri monumenti dedicati ai morti o alle divinità, tanto più che molti riportano ancora tracce di sculture antropomorfe, i cosiddetti “allineamenti” che potrebbero essere luoghi di raduno o delle vie sacre.
  • Altre correnti vorrebbero che le facce larghe della pietra, orientate da est a ovest, illuminate dal sole possano essere utilizzate per scandire il tempo e segnare solstizi ed equinozi, o li identificano come simulacri del culto della fertilità della dea-madre terra.
  • Certo è che nel Medioevo furono finalizzati alla “cristianizzazione” dei menhir, attraverso l’apposizione della croce sulle facciate della struttura. Da qui divennero patrimonio condiviso della cristianità ed ancora oggi in alcuni paesi del Salento, si scelgono come meta di processione della domenica delle Palme per fermarsi e benedire i ramoscelli d’ ulivo.
  • Mistero e dubbi invadono da sempre il mondo dei Menhir nel Salento: se non è chiaro quale popolo li avesse eretti e per quali scopi. E’ possibile che i luoghi in cui i Menhir erano costruiti fossero considerati adatti a stabilire un contatto con il mondo ultraterreno e gli Dei.

Un legame tra passato e presente che viene custodita da una terra poliedrica che raccoglie in sé cultura, natura, folklore e storia disseminate da testimonianze di popoli diversi e antichi; una sacralità originaria, inspiegabile, con cui si convive ogni giorno.

Dove si trovano i Mehnir nel Salento?

Tracce di queste pietre “anziane” in molti paesi del mondo: Francia, Isole britanniche, Africa settentrionale, Germania.

Tra le regioni italiane la Puglia è certamente la più ricca di tali megaliti. Se ne contano infatti all’incirca 120 localizzate nella fascia costiera del barese, un’area a nord di Taranto e nel Salento.

Queste “pietre sacre” sono concentrate nell’area tra Minervino, Giurdignano, Giuggianello, Martano e Otranto.

  • A Giurdignano, definito ” giardino megalitico d’ Italia” se ne contano più di 15 esemplari, segnaliamo: il “Madonna di Costantinopoli” (alto 3 metri, in pietra leccese); il “Monte Tongolo” (scoperto nel 1951); i due “Vico Nuovo”; il “Croce della Fausa” (dal nome della grotta adiacente); il “San Vincenzo” (uno dei più alti); il “Palanzano”; il “Madonna del Rosario” (trasformato in colonna votiva di pianta ottagonale); i due “Vicinanze” (detti così dal nome di un casale rupestre nei dintorni). Altro menhir degno di nota è sicuramente il “San Paolo” che prende il nome dal santo cui è intitolata la cripta bizantina su cui s’innalza. Uno dei più bassi (circa 2 metri), reca i segni della cristianizzazione in quel foro sulla sommità che, si pensa, dovesse ospitare la croce.
  • Spostandoci a Giuggianello, troveremo il menhir “Polisano” e il “Quattromacine” (in pietra leccese).
  • A Martano è presente uno dei più alti Menhir d’Italia, il “Menhir de Santu Totaru”, che raggiunge i 4,70 metri d’altezza.
  • A 7km da Otranto, sulla Serra di Monte Vergine, sorge il menhir omonimo, così come lo è anche il santuario che s’innalza in cima alla collina.

Finché non lo si vede, non si crede che possa esistere un posto del genere. Un posto, incantato, magico, colmo di storie e di misteri, che ruotano attorno a quello che era un tempo, una proprietà privata in larga parte incustodita e lasciata marcire, un forziere scassinato e abbandonato al suo destino,un patrimonio dell’umanità che di umano serba solo le tracce ingiallite dal tempo. Qui, nell’agro di Veglie e all’incrocio tra i quattro feudi di Nardò, Avetrana, San Pancrazio Salentino e Salice Salentino, al confine di una collinetta che guarda il mare di Torre Lapillo, nel cuore dell’Arneo, sorge Monteruga segnalato ormai solo da cartelli stradali arrugginiti, il borgo fantasma nel cuore del Salento disabitato dagli anni ’80.

Monteruga
Piazza di Monteruga

Storia di Monteruga

Tutta la storia, il vissuto, le peculiarità del Salento e della sua gente, sembrano essere rappresentate da questo luogo.

  • Nacque in epoca fascista, quando in tutto il Salento fiorivano masserie e aziende agricole che dovevano portare all’autonomia del paese.
  • Ettari di terreno incolto che a partire dagli anni ’50 del Novecento vengono messi a disposizione dai contadini disposti a trasferirsi qui con la loro famiglia. Il villaggio ha origini più antiche, sorgendo attorno a quella che era una masseria fortificata, assume le sembianze attuali in epoca fascista.
  • Quella che era soltanto una masseria, sotto la gestione della società elettrica S.E.B.I. (Società Elettrica per Bonifiche e Irrigazioni, che poi diventerà l’ENEL) divenne un vero e proprio paese, che contava stabilmente 800 abitanti, suddivisi in 100/150 famiglie; conobbe il suo splendore negli Anni 50, con la coltivazione del tabacco e la produzione di vino, diventando soprattutto meta di persone, in particolare contadini delle zone limitrofe, che qui si trasferivano in cerca di lavoro e fortuna.
  • Si crea  una comunità autosufficiente, che in poco tempo a causa di problemi economici che interessarono la società proprietaria del paese, fu ceduto a privati e da qui iniziò il suo declino: l’azienda agricola venne privatizzata, il villaggio andò a svuotarsi e gli abitanti si spostarono nelle città vicine.

Prodotti locali

A Monteruga si produceva tabacco, olio e vino, e lo testimoniano i ruderi: uno stabilimento vinicolo, sulle cui pareti inneggiava una scritta fascista, utile, si diceva, per invogliare gli operai a lavorare: “Chi beve vino campa più a lungo del medico che glielo proibisce”. Passeggiando per le strade di questo paese abbandonato, si può vedere la chiesa di Sant’Antonio Abate (patrono del luogo), il campo da bocce, le case dei contadini, la caserma, le rimesse, gli uffici amministrativi, la scuola, il frantoio, il tabacchificio e gli altri prodotti agricoli coltivati nella stessa terra, dai contadini ed i coloni che raggiungevano questo posto da tutte le zona del Salento, anche dal Capo di Leuca.

Monteruga
Case di Monteruga

Tradizioni del borgo Monteruga

Ma Monteruga non era solo lavoro. Una grande famiglia, dove si condivideva ogni momento della vita. D’estate arrivavano anche i bambini dei campi estivi a portare gioia e allegria, si facevano grandi feste all’aperto, ci si imbellettava e si passeggiava.

Si festeggiavano i santi, come si conveniva. Era Sant’Antonio Abate il santo protettore di Monteruga, e ogni anno, il 17 gennaio, una grande processione attraversava il villaggio. Nei ricordi di chi quel luogo lo ha vissuto, pare indimenticabile la bellezza di quel giorno, soprattutto per chi al tempo era bambino e per la ricorrenza riceveva in dono un pallone di cuoio o una bambola.

Indelebili anche i ricordi legati all’annuale processione in onore del Corpus Domini, quando le donne, in segno di devozione, appendevano per strada, su fili di ferro, il loro corredo, faticosamente ricamato nelle poche ore di riposo. Erano bei momenti, in cui si annullavano le differenze sociali e di ruolo, e si stava tutti insieme: coloni, fattori, amministratori. A Monteruga sono nati amori, ci si è sposati, si sono cresciuti i figli, ma non si moriva. Qui non si celebravano i funerali, come se a predominare dovesse essere solo il trionfo della vita.

Le case cittadine

Ogni famiglia aveva la sua casa, tutte, tranne una, con il bagno in comune all’aperto. Le case dei coloni, una camera da letto e la cucina, erano disposte in fila e si rincorrevano per i tre lati del grande porticato che circondava la piazza principale, seguendo la regola “una porta, una famiglia”. Distante da queste abitazioni, la casa della maestra elementare, voluta in quel luogo per garantire quella che al tempo era definita l’“igiene morale”.

Monteruga
Monteruga

Monteruga oggi

Ad oggi Monteruga è una delle Ghost Town più famose d’Italia. Non è più quel paese ricco di vita e popolato da gente dinamica ed operosa, ma si presenta come un luogo deserto ed abbandonato. I suoi edifici sono ancora in piedi ma si presentano lugubri e impregnati di nostalgia per quel che è stato.

Nonostante i cartelli esterni che delimitano una proprietà privata, e lo scenario inquietante e desolante che si presenta, molti curiosi si avventurano ugualmente in questo angolo e pezzo di Salento dimenticato in terra d’Arneo , ad esplorare questo “scorcio di passato“, che continua a vivere, malgrado la sua triste storia, e a mostrare le sue caratteristiche più peculiari a tutti coloro che praticano ed amano il cosiddetto “turismo dell’abbandono”, ovvero il piacere che si può provare visitando tutti quei luoghi fantasma che puntellano il nostro territorio.

L’atmosfera della piazza abbandonata richiama i tanti film con scenari apocalittici. Sembra che il paese sia stato abbandonato da un momento all’altro e che la natura si stia impossessando dei suoi spazi in modo inesorabile.

Tuttavia, la bellezza del borgo non ha mai smesso di ammaliare i visitatori e se Monteruga ha dovuto fare i conti con lo spopolamento e la perdita della vitalità offerta dai suoi abitanti, oggi appare permeato da un fascino spettrale e nostalgico.

Una testimonianza vivente della preistoria in Puglia sono le specchie costruzioni simili a delle torri e consistono in manufatti dalle origini antichissime realizzati a secco da cumuli di pietre calcaree. Non è possibile dare a queste costruzioni una collocazione storica precisa: secondo alcuni studiosi infatti, la loro comparsa risale al Neolitico, mentre, per altri risalgono ai tempi dei messapi.

Specchia dei Mori, Martano
Specchia dei Mori, Martano ©www.salentoviaggi.it

La funzione delle Specchie in Puglia

La loro funzione reale è molto incerta. Secondo alcuni paleontologi le specchie rappresentano dei ruderi di antiche e gigantesche abitazioni, simili ai nuraghi sardi e ai tanto famosi trulli, per altri sono delle costruzioni erette a scopo difensivo dall’uomo primitivo, infine, per altri ancora hanno funzione tombale. Ma l’ipotesi più concreta, è che servissero come posto di vedetta per controllare la costa.

Le tipologie di Specchie in Puglia

Le specchie si dividono in base a dimensioni e funzioni in:

  • Grandi specchie: strutture che si innalzano seguendo una forma conica con un’altezza di circa 10-15 metri.
  • Piccole specchie: cumuli di pietra che pare avessero delle funzioni funerarie. In genere si tratta di semplici ammassi di pietre realizzati in maniera spontanea a formare piccoli dossi di pietrame di origine calcarea sparsi per la campagna.

Dove si trovano le Specchie in Puglia

La Valle d’Itria, alcuni comuni del Salento ed il Gargano presentano diverse specchie disseminate nei loro territori. Ce ne sono infatti 18 attorno a Ceglie Messapica, 10 nei pressi di Villa Castelli, altre sparse tra Cisternino, Fasano e Francavilla Fontana. La più celebre tra le specchie Tarantina quella della frazione del comune di Martina Franca.

Anche il Salento Settentrionale ed il territorio di Oria presentano alcuni esemplari di specchie, altre sono sparse tra le aree di Martano, Ugento, Cavallino e Presicce. Non ne mancano nella zona della Murgia Barese. Nel territorio di Salve, comune della Puglia in provincia di Lecce, si annoverano 3 specchie: la Specchia Cantoro, la Specchia Spriculizzi, la Specchia Cucuruzzi, altrimenti detta dei Fersini, la più imponente ed antica. Ricca di fascino e mistero la Specchia dei Mori suscita il grande interesse di studiosi e turisti.

Collocata nei pressi di Martano-Caprarica è conosciuta anche come la “Segla tu demoniu”. Un’antica leggenda narra che questa specchia nasconderebbe al suo interno un tesoro costituito da una chioccia e dodici pulcini d’oro, impossibile da prendere perché nelle mani del demonio.

Un’altra affascinante leggenda che aleggia attorno a questa specchia “incantata”, narra che giganti Mori, antichi abitanti di questi luoghi, decisero di costruire questa specchia così alta per riuscire a salire fino al cielo. Il gesto non fu gradito agli dei che pertanto la fecero crollare seppellendo con le pietre del crollo coloro che l’avevano costruita.

Ad oggi queste antiche costruzioni risultano informi ma al tempo stesso continuano ad esercitare un grande fascino sulle moltitudini di turisti che giungono a visitare questi luoghi di ritualità e mistero.